domenica 23 novembre 2014

I tormenti di Viale Mazzini



Risale a mercoledì scorso una notizia totalmente inaspettata: il Consiglio d’amministrazione della Rai ha accolto la proposta di fare ricorso contro la scelta governativa di tagliare 150 milioni di euro all’azienda per coprire finanziariamente il bonus fiscale da 80 euro.
Una richiesta, quella dei 150 milioni, che si accompagna ad altre scelte a loro modo rivoluzionarie compiute dalla Rai negli ultimi tempi: l’abbassamento degli stipendi dei manager, deciso sempre dall’attuale esecutivo, ha costretto fra gli altri il direttore generale Luigi Gubitosi ad una bella potatura della sua retribuzione, passata improvvisamente da 650mila a 240mila euro annui; tra il 2011 e il 2013 il costo dei divi del piccolo schermo è stato ridotto dell’8%; nello stesso arco di tempo i servizi telefonici sono stati più che dimezzati (-55,5%); il peso economico delle scenografie è precipitato del 37%, e via di questo passo. Scelte dolorose ma a quanto pare insufficienti se si considera il fatto che il bilancio continua ad essere traballante, le pubblicità non garantiscono più le entrate di un tempo, il canone rimane la voce principale (1,7 miliardi l’anno, nonostante un evasione stimata al 30%) e la tecnologia non è di certo al passo coi tempi.
Nonostante tutto ciò, le principali sacche di privilegio continuano imperterrite a resistere nei confronti di qualsiasi assalto: gli accampamenti politici non hanno alcuna intenzione di alzare bandiera bianca, arrivando al punto che oramai la Rai è l’unica azienda televisiva pubblica al mondo dove esistono tre telegiornali ognuno dei quali fermamente legato al proprio gruppo politico di riferimento, con la naturale conseguenza di ritrovarci con tre distinte strutture, tre distinti team d’inviati, tre distinti direttori, tre distinte squadre di tecnici e tre distinti bilanci. Sui metodi di selezione del personale è meglio stendere un velo pietoso, ci si accontenti di leggere quanto scrive il gruppo di esperti coordinato da Massimo Bordignon all’interno del dossier per la spending review di Carlo Cottarelli: «A ogni cambio di governo o maggioranza e a ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono tre-quattro tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che, ad esempio, nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». Nemmeno un anno fa il deputato Pd Michele Anzaldi denunciava pubblicamente i risultati di questa pratica scriteriata: su 113 giornalisti del Tg1 ci sono più caporedattori (34) che redattori ordinari (32).
Visto però che tre carrozzoni del genere non erano sufficienti, nel corso del tempo si è aggiunta RaiNews24 (la cui piattaforma web è uno degli ultimi siti d’informazione per numero di consultazioni) e, dulcis in fundo, 26 sedi regionali. Ed è proprio in queste ultime strutture che spiccano i peggiori difetti della nostra industria televisiva (quinto gruppo culturale del continente, non dimentichiamolo), primo fra tutti l’asservimento nei confronti delle classi politiche locali. Spesso anche le più minute, se si pensa che la presenza di 26 sedi comporta l’installazione di redazioni Rai in località come Perugia, Campobasso e Potenza, arrivando al punto che alcune Regioni hanno l’onore di ospitare addirittura più sedi regionali: il Veneto dispone di Venezia e Verona, la Sicilia di Palermo e Catania e il Trentino Alto-Adige di Trento e Bolzano.
Non pensiate, inoltre, che tali sedi siano appartamenti austeri: fatta eccezione per la pericolante stazione di Cagliari, parliamo di palazzoni ovviamente di proprietà tra cui spicca la sede regionale di Genova, un maestoso grattacielo di dodici piani di cui se ne vengono occupati tre è già grasso che cola. Senza parlare dei dipendenti: le sedi regionali della Bbc (quindici in tutto, occupanti strutture che non superano i due piani) non occupano più di 1500 organici. Le sedi regionali della Rai superano i 2000. La sede locale più piccola della Bbc, quella delle Channel Island, occupa due dipendenti. La sede più piccola della Rai, quella di Campobasso, ne occupa 70. A Cosenza ce ne sono 95, contenuti in un palazzo simile a quello romano di Viale Mazzini.
Tutto questo dispendio (i giornalisti della Rai sono in tutto 1700) per produrre, come sentenziato dalla giornalista Milena Gabanelli, «tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi su sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale». Nemmeno paragonabile a quanto avviene nel Regno Unito, dove tutti i servizi globali vengono inglobati da Bbc One che li trasmette in quattro brevi collegamenti al giorno. È doveroso aggiungere che il canone della Bbc ha un costo notevolmente più elevato rispetto al nostro (174 euro contro 113), ma qualche spunto per razionalizzare la spesa l’emittente della perfida Albione lo offre ugualmente.
Andando a scavare un altro po’ tra i meandri aggrovigliati della televisione pubblica ci si imbatte anche in altre strutture di ambigua utilità. Prendiamo Rai Vaticano: tutto nasce nel 1997, quando un manipolo di dipendenti si assume l’onere, senza budget e occupando solamente due stanze, di comunicare con la Santa Sede al fine di preparare il Giubileo e fornire contenuti da vendere eventualmente anche ad altre emittenti fuori dai confini nazionali. Terminato l’evento planetario, il team, invece di congedarsi dall’incarico si è trasformato in una pesante struttura, con tanto di dirigenti, funzionari e con mansioni ignote. Passando dal potere celeste al potere temporale, una vicenda simile è accaduta con Rai Quirinale, munita di un direttore e 35 dipendenti la cui utilità è ristretta in pochi minuti all’anno, quelli del discorso del 31 dicembre del Capo dello Stato e quelli delle celebrazioni del 2 giugno.
Sorte analoga rischia di essere quella di Rai Expo, partita in quarta con una dirigenza e 45 dipendenti con il compito di svolgere un lavoro (seguire l’esposizione universale) che si sarebbe potuto affidare senza problemi alle sedi regionali le quali, come abbiamo visto, non difettano certo di strutture e personale. In un paese dove la ricchezza individuale è crollata in pochi anni dell’11,5%, dove il Pil ha visto una picchiata del 9%, la disoccupazione tormenta metà dei giovani e il numero di famiglie povere corrisponde nel Mezzogiorno al 70% del totale certe rinunce di alcuni ambiti della spesa pubblica dovrebbero rappresentare quasi un dovere. Altro che ricorsi.

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