giovedì 27 novembre 2014

Le cronache di «Repubblica»



«Repubblica» non è un giornale come tutti gli altri, «Repubblica» è il primo quotidiano nazionale. Ma «Repubblica» non rappresenta soltanto un organo d’informazione, è un baluardo, un simbolo, un apparato di potere in grado di decretare (come manco ai tempi di Nerone) la sorte della politica progressista italiana. Illuminante il ritratto che ne traccia il giornalista Claudio Cerasa: «La vera coscienza culturale della sinistra. Il vero azionista di riferimento del mondo progressista. Un giornale, o meglio una corazzata, che meglio di chiunque altro condiziona le scelte politiche della sinistra. Che meglio di chiunque altro influenza il percorso della sinistra. Che meglio di chiunque altro riesce a imporre una leadership rispetto a un’altra.
Mai un leader di centrosinistra è diventato leader del centrosinistra senza avere il sostegno di questo giornale. Ma allo stesso tempo, mai un politico diventato leader del centrosinistra anche grazie alla spinta ricevuta da questo giornale è riuscito a essere contemporaneamente maggioranza della sinistra e maggioranza del Paese. Da questo punto di vista il successo editoriale del quotidiano di cui stiamo parlando è clamoroso. Ed è difficile trovare in giro per il mondo giornali come questo che siano riusciti nella non facile impresa di far coincidere la voce della sinistra con quella del più grande giornale della sinistra». Nonostante questo suo potere, coadiuvato anche dalla presenza di alcune delle migliori firme del giornalismo italiano (Ilvo Diamanti, Filippo Ceccarelli, Federico Rampini, Mario Pirani, Federico Fubini, Corrado Augias e altri ancora), «Repubblica» da quando è principiato il cataclisma della crisi economica si è ritrovata immersa in un'infinita sequela di problemi, a cui in questi lunghi anni ha cercato di porre rimedio seguendo un percorso rocambolesco e avventuroso. Potrebbero scriverci un romanzo, e magari intitolarlo «Le cronache di “Repubblica”», sulla scia del celebre «Le cronache di Narnia». La lunghezza dello scritto, potete starne certi, sarebbe simile.

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Partiamo dal Capodanno 2009: il quotidiano è nel pieno della sua crisi, la tiratura è talmente scarsa che il dominus del giornale, la Cir della famiglia De Benedetti, è tentata di abbandonare la proprietà della testata: occorrerà un feroce scontro generazionale tra il padre Carlo e il figlio Rodolfo (fautore della vendita) prima che il proposito venga abbandonato. Assai indicativo della cupidigia di quel frangente temporale è il fatto che il settimanale «L’Espresso», altro organo della Cir, deciderà d’interrompere la pubblicazione dei dati di vendita dei quotidiani. Il calo di tiratura registrato da «Repubblica» era talmente imbarazzante da costringere il direttore Ezio Mauro non solo a chiedere la censura dei numeri, ma di farlo anche in una maniera talmente brusca da rendere palpabile l’atroce affronto che quei numeri rappresentavano per lui. Il giornalista Giampaolo Pansa racconta: «Un giorno, mentre usciva da “Repubblica” per la pausa pranzo, [Ezio Mauro, ndr.] s’imbatté in uno dei vicedirettori dell’Hamaui [all’epoca direttrice de “L’Espresso”, ndr.]. E gli disse, a brutto muso: “Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?”. Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre».
All’improvviso, però, arrivò il miracolo. L’ex-moglie dell’allora premier Silvio Berlusconi, Veronica Lario, spedisce una lettera al giornale scagliandosi ferocemente contro la condotta privata del Caimano. Una manna dal cielo, la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno, il Santo Graal: nessuna metafora può eguagliare cosa significò quell’evento per le sorti del quotidiano. Le vicende sessuali del Cavaliere divennero il carburante per far ripartire la macchina. Venne ingranata subito la marcia più alta: tra la primavera e i primi di giugno del 2009 «ItaliaOggi» stimò che «Repubblica» affrontò la vicenda di Noemi (la minorenne che si sospettava legata in maniera ambigua al premier) per 2236 volte. Leggenda vuole che le vendite subirono un’impennata di 30mila copie. Da allora la corazzata «Repubblica», compatta come una testuggine romana, senza sbavature, voci contrarie o grandi divagazioni, concentrò tutta la sua attenzione su un unico bersaglio: il Caimano, con particolare predilezione per la sua attività erotica. Questo tsunami editoriale trascinò bruscamente il Pd di Franceschini, costringendolo (con deludenti risultati elettorali) a inseguire la linea di «Repubblica»; e trascinò con sé anche «L’Espresso» della signora Hamaui il quale, in preda alla ormai assuefante Silvio-mania, tra il febbraio del 2009 e il marzo 2010 pubblicò (dati di «ItaliaOggi») 21 copertine con stampata sopra la faccia del Cavaliere.
Un’azione la cui coordinazione e tenacità lasciò stupefatti. L’ex-direttore de «l’Unità» Peppino Caldarola scrisse su «Il Riformista» del 10 ottobre 2009: «I giornalisti di “Repubblica” parlano tutti allo stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell’“Unità” che la pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella esangue dei partiti». Splendido epiteto, quello di «giornale-partito», che indica un’altra caratteristica della «Repubblica» di quei mesi: la fedeltà o, per meglio dire, il fanatismo di una frangia di lettori. Fermamente convinti che «Repubblica» fosse l’unico organo mediatico, ma anche politico, resistente all’avanzata berlusconiana (in realtà i giornali a favore del Cavaliere si potevano contare sulle dita di una mano) e imbevuti dell’enfasi semplicistica del quotidiano, alcuni pasdaran si abbandonarono a idee e proposte strabilianti. Ecco gli stralci di alcune lettere pubblicate dal giornale nel settembre 2009: «Perché non ci inventiamo un segnale da mettere sui nostri balconi per far vedere al Paese quanti siamo?» (Elisabetta Salvatori), «Propongo la nascita di un movimento con sedi in tutta Italia» (Pino Quarta), «Una bella idea sarebbe quella di creare un segno di riconoscimento. Da esporre da parte di tutti coloro che condividono questa battaglia per la libertà di stampa» (Rita Bega e Manuel Lugli) e molte altre ancora.
Lo stesso Carlo De Benedetti confessò che «Repubblica» gli ricordava ormai un «disco rotto» e che «se il Cavaliere fa “cucù” alla signora Merkel, la cancelliera tedesca, per tre giorni leggiamo su “Repubblica” sempre lo stesso editoriale». Un astio facilmente ricomponibile se si pensa che fu proprio in quei mesi, intorno al settembre 2010, che «Repubblica» divenne il primo giornale italiano con circa 510mila copie vendute. «Noi a “Repubblica” siamo grati a Berlusconi per averci dato la possibilità di informare bene più persone» fu costretto ad ammettere De Benedetti durante una lezione, «il 10% in più quando il Cavaliere dice cose pazze. E circa il 2% in più nelle situazioni normali».

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La pacchia però non era destinata a durare in eterno: di lì a un anno la preoccupante tempesta finanziaria che si accanì sui titoli di debito costrinse Berlusconi (ormai privo della maggioranza parlamentare) ad abbandonare repentinamente il governo prima che per l’Italia si aprissero scenari apocalittici. La flebo che teneva in vita il giornale si esaurì e la testuggine no-Cav fu costretta ad un tormentato «rompete le righe», relegando «Repubblica» ad un insofferente appoggio al Pd (di cui, secondo la sarcastica definizione di Giuliano Ferrara, De Benedetti rimane pur sempre «la tessera numero 1»). Passa qualche anno e la situazione si fa ancora più drammatica: Silvio Berlusconi non solo diventa padre costituente (e in un quotidiano da sempre schierato sulla linea della «Costituzione più bella del mondo» non ci può essere incubo peggiore), ma lo fa in «profonda sintonia» con il nuovo leader della sinistra, Matteo Renzi.
Forte della sua supremazia sul mondo antiberlusconiano, «Repubblica» ha sempre snobbato i leader del Pd: De Benedetti nel corso del 2010 definì Bersani «leader totalmente inadeguato» e accusò D’Alema non solo di «stare ammazzando il Partito democratico» ma anche «di non aver fatto niente nella vita» (nel corso del botta e risposta successivo arrivò a definirlo nientemeno che «un problema umano»). Parere analogo a quello di Ezio Mauro: la sua insoddisfazione verso la leadership del Pd apparve in tutta la sua chiarezza quando dichiarò che «anche a sinistra è arrivata l’ora del Papa straniero» per poi specificare qualche mese più tardi su «L’Espresso»: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di cambiamento e di vittoria». Ironia della sorte, in quello stesso anno Matteo Renzi tagliò il nastro della corsa per la «rottamazione» e, ancora più sorprendente, lo fece proprio durante un’intervista rilasciata a «Repubblica». Eppure l’allora sindaco di Firenze non suscitò grande entusiasmo tra le firme del quotidiano: solo Riccardo Liguori e Claudio Tito (il quale instaurò ben presto un solido rapporto personale con l’ambizioso giovanotto) avevano capito che quello era un cavallo su cui puntare. Successivamente si aggiunse anche Goffredo De Marchis. Il resto della redazione restava titubante: nel settembre 2010 lo storico padre di «Repubblica», Eugenio Scalfari, liquidò il programma di Renzi come «carta straccia» e ancora nel 2012 De Benedetti, parlando sempre del giovane Matteo, asserì: «Non ci serve un Berlusconi di sinistra». La fedeltà a Bersani si manteneva svogliata ma intatta, alimentata dalla spavalda insofferenza che Renzi, in nome della lotta ai corpi intermedi, per lungo tempo ha nutrito pubblicamente verso la carta stampata (solo pubblicamente, perché in privato non sfugge mai alla lettura dei quotidiani; del resto, lui stesso da adolescente ha diretto il giornaletto scout «Ancora in cammino») al punto tale che, una volta al governo, più di un direttore di quotidiani è arrivato a lamentarsi avvilito: «Ma come, Enrico [Letta, ndr.] mi mandava un sms ogni mattina, mentre questo mai, niente».
Il cambio di rotta iniziò lentamente durante le primarie del 2012. De Benedetti ammise sì il suo voto a Bersani, ma aggiunse: «Su Renzi mi sono sbagliato: ha più stoffa di quel che pensassi». I risultati delle elezioni 2013 accelerarono la manovra: ben presto la compagine di «Repubblica» si schierò compattamente a favore di Renzi, primo fra tutti il capitan Ezio Mauro. Anche De Benedetti nel corso del 2013 dichiarò entusiasta: «L’unico leader spendibile al momento è Renzi. È una persona nuova, pragmatica, che ha fatto il sindaco ed è giovane». Rimanevano alcune pesanti voci fuori dal coro: Eugenio Scalfari (ancora il 28 settembre 2014 scrisse che Renzi «è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci») e l’esperto di economia Federico Fubini. L’approdo dell’analista Stefano Folli dal novembre 2014 dovrebbe rappresentare un’altra voce non esattamente allineata con l’esecutivo in carica. In generale, però, è tutta la redazione (da qualche settimana a questa parte) a vivere in piena crisi d’identità: un prolungato sostegno a Renzi rischia di rivelarsi controproducente. Succube di questo atroce dilemma e di un irrefrenabile calo di lettori, la saga di «Repubblica» per ora si ferma qui. L’avvincente romanzo proseguirà, questo è poco ma sicuro. La corazzata «Repubblica» garantisce sempre sorprese. 

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