lunedì 10 novembre 2014

Rom



L’ammirazione in costante aumento che un leader come Matteo Salvini suscita in settori sempre più ampi e moderati della società italiana (tradizionalmente di destra, ma non solo) ci costringe a fare i conti con un sottovalutato aspetto mai sopito di una certa mentalità del nostro Paese: l’intolleranza verso il «diverso», in qualsiasi forma esso si presenti. Risale a pochi giorni fa il vergognoso assalto squadrista compiuto da un gruppetto di avventori di centri sociali nei confronti dell’automobile del capo leghista, recatosi a Bologna con l’intento (mai raggiunto) di visitare un campo nomade della zona. Una visita, quella, che sancisce la particolare rilevanza della tematica dei rom nel bagaglio propagandistico di Salvini, ultimo esponente di spicco in ordine di tempo di un partito, la Lega Nord, che solo sei anni fa vedeva uno come Giancarlo Gentilini esibirsi su un palco inveendo: «Voglio la pulizia dalle strade di tutte queste etnie che distruggono il nostro paese. Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, dei zingari. Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso. Non ci sono più zingari che vanno a rubare agli anziani! Voglio la tolleranza doppio zero! Maroni ha detto zero, io la voglio a doppio zero! Io voglio la rivoluzione nei confronti della televisione, della radio, dei giornali perché continuano a infangare la Lega. È tempo di zittirli. Dobbiamo mettergli dei turaccioli in bocca e su per il culo a quei giornalisti». Parole apprezzate, applaudite, acclamate, ripetute e rivendicate con orgoglio da una folta schiera di elettori, allora come oggi.
L’odio discriminatorio verso la cultura rom è particolarmente in voga nel nostro Paese: un sondaggio Eurobarometro 2008 ha rivelato che questo aspetto contraddistingue il 71% degli italiani contro il 51% dei tedeschi e il 37% degli spagnoli. In Europa solo la Repubblica Ceca nutre un astio superiore al nostro. Tutto questo nonostante un rapporto europeo sulla scolarizzazione redatto di Jean-Pierre Liégeois affermi che nella nostra area continentale (ossia quella situata tra la zona balcanica e la zona confinante con l’Atlantico) «la popolazione zingara può raggiungere al massimo il livello dello 0,2% rispetto alla popolazione». La Commissione Europea ha provato ad essere più precisa, asserendo che nell’estate del 2009 fossero presenti sulla nostra penisola tra i 120 e i 160mila rom (circa lo 0,26% della popolazione), un quinto rispetto alla Spagna e un terzo rispetto alla Francia. Di questi, ed è il dato che dovrebbe maggiormente far riflettere, solo 40mila alloggianti nei campi nomadi. Tutti gli altri possiedono le loro abitazioni, esattamente come Charlie Chaplin, Elvis Presley, Yul Brinner, Bob Hoskins e Michael Caine. Tutti illustri appartenenti alla cultura rom. Ma non solo loro: anche l’idolo del pallone Andrea Pirlo è di origine rom, così come lo sono il violinista Ion Voicu e i celebri direttori d’orchestra Sergiu Celibidache e Zubin Mehta. Dei rom fa parte Livio Togni, ex-senatore di Rifondazione Comunista passato tra le file del filo-berlusconiano Movimento per le Autonomie; alla comunità sinta appartiene la bionda Eva Rizzin, laureata con dottorato di ricerca in Geopolitica e Geostrategia all’università di Trieste; è rom Alexian Santino Spinelli, plurilaureato attualmente conteso tra le università di Torino, Chieti e Trieste; tra i rom italiani va annoverata anche Serena Spada, laureatasi nella elvetica European University di Montreux col sogno di fare la broker a Londra. È rom anche una buona fetta della classe dirigente di Melfi, città dove la comunità zingara si è integrata da secoli, anzi, spesso ne ha rappresentato la parte più emancipata se si considera che sono stati loro i primi a mandare i propri figli a scuola (correva l’anno 1905). Così come vanno considerate rom anche molte famiglie che campeggiano nei dintorni di Venezia, talmente entrate nel tessuto connettivo del territorio da portare ai giorni nostri cognomi come Pietrobon, Pavan e Brusadin. E chissà quanti altri cittadini italiani con i quali ci confrontiamo tutti i giorni appartengono a questa cultura, pur evitando di confessarlo pubblicamente e pur conducendo uno stile di vita del tutto innocuo. Non bisogna sorprendersi: il professor Tommaso Vitale spiega che «si va sempre a spanne perché il “mondo rom” è fatto di mille mondi. Ci sono i cristiani e i musulmani, gli ortodossi e i buddisti, quelli che mandano le donne a chiedere la carità e quelli che non lo farebbero manco morti, quelli la cui famiglia vive in Italia da sei secoli e quelli che sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni nei Balcani e sopravvivono in condizioni di estremo disagio, rubacchiando, e quelli che in qualche modo sono riusciti a inserirsi e non lo fanno più. E poi quelli che sanno di essere rom e lo negano e quelli che non lo sanno neppure. Ci sono perfino i razzisti che si considerano superiori a quelli di altre comunità…»
D’altro canto, non è passato molto tempo da quando il giornalista Orio Vergani (che non si può certo definire un ferreo sinistroide) scriveva sul «Corriere della Sera» dell’8 settembre 1953: «I nebbiosi inverni della Padania hanno fatto sempre amare i bruni zingari i cui visi sembrano bruciati da un sole antichissimo e parlano in nome di un misterioso oriente dal quale provengono con il passo furtivo, fossero essi mercanti di cavalli o battitori di rami, si sono sempre illuminate le fantasie dei ragazzi di Padania…L’elogio della vita zingaresca non può essere cantato se non da chi non si stacca mai dal proprio focolare…Probabilmente poteva nascere solo a Gonzaga l’idea di offrire i prati della propria fiera a un grande raduno di zingari. Gonzaga vanta come un titolo di nobiltà del suo lavoro agrario l’antichità della sua fiera, sorta appena si sperdeva il tenebrore del Medioevo italico». Suscitava ammirazione questo popolo errante. Quasi tutti i giornali si lasciavano incantare da questa tradizione millenaria. Su «L’Illustrazione Italiana» Leone Lombardi raccontava per l’occasione come gli antenati dei Gonzaga avessero appreso «l’utile che si poteva trarre dal proteggere i popoli nomadi e i popoli perseguitati. Atavicamente allenati al lavoro dei campi e a misurare i valori dei beni immobili, essi conobbero qui, dagli zingari antichissimi, il valore dei commerci dei beni mobili: proprio dagli zingari che vagavano di terra in terra lavorando il rame, battendo su piccole incudini monili d’oro e vendendo cavalli che andavano forse rubando pascolando qua e là nel loro instancabile peregrinare. Protettori di zingari prima, e poi protettori di ebrei, come dovevano esserlo, a Ferrara, gli Estensi. Il mercato zingaresco di Gonzaga e il ghetto di Mantova sono stati…i due caposaldi, dopo quello terriero, della loro fortuna finanziaria». Si abbandonava alle lodi anche un altro giornalista del «Corriere», Max David, che in quello stesso 1953 narrava dei rom andalusi: «Conoscono il segreto che cambia il mantello dei cavalli; conoscono il segreto che nasconde certe malattie; conoscono il segreto che dà agli animali una particolare prestanza; conoscono il segreto che fa rizzare le orecchie ciondoloni e fa tremolare le froge dei buricchi come petali di rose; conoscono infine il segreto, affascinante, di far trottare diritte le bestie che marcano. La mula del Nino de la Chata trottava diritta ed era zoppa; quella mula aveva dieci anni ma ne dimostrava tre». «Mille poeti biondi tra pentole e chitarre» era uno dei titoli sui rom che poteva apparire sui quotidiani, e questo è lo stralcio di un pezzo di Rino Albertarelli su «Settimo Giorno»: «Esplose dall’organetto un grappolo di notte, come fuoco d’artificio, e la tensione si sciolse di colpo in un lento ondeggiare di vestine multicolori; tutte le bambine danzavano, ognuna a sé o per sé, con una serietà impressionante. Le più grandi assumevano espressioni intense, drammatiche, inframmezzati di sorrisi sfumati, di sguardi ora languidi, tra le palpebre socchiuse, ora lampeggianti…».
È impossibile negare che in alcuni campi nomadi ci sia una particolare concentrazione di delinquenza, ma da qui ad abbandonarsi allo squallore discriminatorio c’è una bella differenza, senza contare l’autentico coacervo di dicerie strampalate che circondano questa cultura. Prendiamo per esempio lo stereotipo dello zingaro rapitore di bambini: la docente universitaria Sabrina Tosi Cambini ha analizzato puntigliosamente l’archivio dell’Ansa del periodo 1986-2007 scoprendo che nessun (dicasi nessun) fanciullo scomparso è mai stato trovato nei campi nomadi e scoprendo anche che dei 40 casi giudiziari sui rapimenti in cui sono stati coinvolti degli zingari 37 si sono conclusi con la piena assoluzione dei rom ed i restanti 3 rappresentano sentenze ancora avvolte da alcune controversie. L’archivio documentale del «Corriere della Sera» (uno dei più corposi d’Italia) ha consegnato alla ricerca soltanto due casi (uno nel 1952 e l’altro nel 1953), che fra l’altro non ricevettero alcun rilievo mediatico. Secondo lo studioso Leonardo Piasere, questa storiella risale nientemeno che ad una commedia veneta del 1545, da cui scaturì una fortunata tradizione letteraria che finì per contagiare anche Walt Disney e Stanlio e Ollio.
Spesso è proprio la tradizione storica a influenzare il nostro modo di pensare: secondo il docente Alexian Spinelli, tra il 1483 e il 1785 sono stati emessi solo nella nostra penisola 210 bandi anti-rom, di cui 79 provenienti dallo stato pontificio. Si legga la seguente grida della Repubblica di Venezia, datata 1558: «Possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territiri Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori [gli assassini, ndr.] per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena». Un esempio fra i tanti, simbolo di una persecuzione che da secoli tormenta in maniera quasi ininterrotta gli zingari. Persecuzione portata avanti senza alcuna conoscenza delle peculiarità, delle molteplici caratteristiche e delle innumerevoli distinzioni interne che caratterizzano una cultura millenaria e variegata come quella rom. Salvini non fa altro che collocarsi in questa scia di odio atavico e stereotipato, totalmente assoggettato ad un’ignoranza tanto antica quanto inestirpabile.

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