mercoledì 19 novembre 2014

Legge di stabilità: nuovo verso, vecchi vizi

La lotta a criminalità ed evasione fiscale porta alla perdita di una delle fasce più consistenti di elettorato, una seria revisione della spesa pubblica rischia di essere impopolare e foriera di vibranti proteste in molti gangli della pubblica amministrazione, le privatizzazioni sono rischiose e richiedono un’elevata dose di delicatezza e attenzione, creare nuovo debito lo si può fare solo entro limiti inflessibili (ancora per poco: col Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione non ci sarà concesso nemmeno quello) e comporta un costo in termini d’interessi sui titoli di Stato (che ogni anno ci divorano circa 85 miliardi). Di conseguenza, anche se può apparire (e di fatto lo è) un paradosso, l’unica strada per partorire una manovra economica espansiva è aumentare le tasse. Possibilmente senza dare nell’occhio, magari camuffando il tutto con una bella spolverata di slide rassicuranti e con un pizzico qua e là di provvedimenti spot, e il piatto è servito.
La legge di Stabilità di quest’anno si prospetta esattamente in questo modo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nell’audizione del 4 novembre alla Camera dei Deputati, lo ha detto chiaro e tondo: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2% del 2015». Una leggerissima variazione momentanea, destinata ad accrescersi nel corso dei prossimi anni, almeno a quanto scrive il giornalista Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 22 ottobre: «Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018». Mica bruscolini. E queste sono pure delle stime ottimistiche, dato che non tengono conto dei probabili aumenti della tassazione regionale dovuti ai tagli imposti da questa manovra agli enti locali.
Questo, almeno, è quanto si prevede: con il governo Renzi è compito assai arduo analizzare con cura l’attività legislativa. Sotto la spessa coltre fumogena di dichiarazioni, incontri, mediazioni (poche) e anticipazioni giornalistiche (troppe) si danno per assodati elementi che non lo sono: il Jobs Act è ancora un foglio bianco da riempire nei prossimi mesi coi decreti delegati, il testo dell’Italicum è ufficialmente lo stesso del marzo scorso (con liste bloccate, soglie differenziate di entità poderosa e premio alla coalizione che raggiunge almeno il 37% dei consensi), la «buona scuola» è uno striminzito elenco di punti che ha la stessa validità di un Kleenex usato, e via di questo passo. Per la legge di Stabilità la situazione non è molto diversa: le norme sono state approvate dal Consiglio dei Ministri, ma (come tradizione impone) il balletto delle modifiche si vedrà durante i vari passaggi in Aula (che fra l’altro si prospettano ristretti, vista la priorità dichiarata di concentrare il lavoro parlamentare delle prossime settimane esclusivamente sul Jobs Act). Fatto questo ampio preambolo, concentriamoci su alcuni contenuti di questa legge, o quantomeno sulla sua bozza.

Il giornalista Vittorio Malagutti, su «L’Espresso» del 6 novembre, traccia una descrizione angosciante: «Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum», mentre in questo caso i danni non solo sarebbero permanenti, ma si ripercuoterebbero in maniera retroattiva su tutto il 2014.
Facciamo una breve premessa: gli italiani sono sempre più propensi al risparmio: vivendo nella quasi totale incertezza sul nostro futuro economico, ci siamo sempre più convinti che sia meglio comportarsi da formichine, con l’effetto da un lato di deprimere i consumi e dall’altro di iniettare i fondi d’investimento con una notevole mole di capitale: nei primi nove mesi del 2014 si sono riversati qualcosa come 97 miliardi, un dato strabiliante se confrontato coi 55 miliardi del 2013. Un salvadanaio per il futuro che rischia di venir razziato dalle compagini renziane in nome dell’incentivo ai consumi. Bizzarro modo di agevolare i consumi se con una mano si tassa il risparmio e con l’altra si rende sempre più incerto il futuro fiscale, lavorativo e a questo punto anche patrimoniale dei cittadini. La prima cannonata al risparmio era stata sparata in occasione del decreto Irpef dell’aprile scorso (il decreto sugli 80 euro, per intenderci) il quale fra le altre misure portava dal 20 al 26% la tassazione sulle rendite finanziarie. Un’azione tutto sommato innocua, che ci conforma alla media europea e che secondo i calcoli della Cgia di Mestre dovrebbe pesare, considerando che la media nazionale dei conti correnti è di 12mila euro, solo 93 centesimi all’anno. Un’inezia se confrontata con la mannaia destinata nel giro di qualche mese a piombare sui nostri risparmi. Prosegue Malagutti: «Alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5% dei proventi». Ma non solo: la tassazione sui dividendi azionari è passata dal 20 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione del Tfr in azienda è passata dall’11,5 al 17%, la tassazione sui fondi pensione è passata dall’11,5 al 20%, i conti di deposito hanno visto passare la loro tassazione dal 20 al 26%, così come le gestioni patrimoniali, i fondi d’investimento, i depositi bancari e postali, le obbligazioni italiane e le casse professionisti (queste ultime d’ora in poi saranno soggette, unico caso in Europa, ad una doppia tassazione). E pensare che il Presidente di Assofondipensione Michele Tronconi, confrontandosi qualche mese fa con Padoan, aveva ricevuto non solo rassicurazione, ma addirittura la promessa di agevolazioni per questo tipo di previdenza. Ma dall’esecutivo nato sotto l’insegna dell’#enricostaisereno non ci si poteva aspettare nulla di buono: altro che incentivo, il prelievo fiscale sui fondi pensione è stato quasi raddoppiato, con tutte le conseguenze che una scelta del genere comporterà nei prossimi anni. Tullio Jappelli, che dirige il Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche all’Università Federico II di Napoli, asserisce: «Il risparmio previdenziale merita attenzione perché è l’unico che consente di proteggerci dal cosiddetto rischio di longevità, cioè che la vita effettiva sia più lunga di quella attesa, con il rischio che gli anziani non abbiamo risorse sufficienti per i loro consumi».
Risparmio ma non solo: i modi per saziare il Fisco si estendono anche ad altre norme apparentemente di carattere diverso, prima fra tutte la possibilità da parte del lavoratore di farsi anticipare il proprio Tfr in busta paga.

Come spiega sempre Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 4 novembre: «Il trattamento di fine rapporto oggi è soggetto a una tassazione separata, che è di solito inferiore a quella dei redditi Irpef (di fatto è l’aliquota media effettiva dei cinque anni precedenti). Una volta entrato in busta paga, invece, il gruzzoletto verrebbe tassato ad aliquota marginale, che in funzione del reddito dichiarato può arrivare anche al 43%»; insomma, al Tfr entrato in busta verrà applicata l’aliquota che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscillante tra il 23 e il 43%) mentre se si opta per incassarlo, com’è sempre stato, a fine carriera, l’aliquota applicata è notevolmente inferiore (tra il 23 e il 33%). Inoltre, secondo l’ex-dirigente dell’Inpdap Maurizio Benetti, l’operazione del Tfr in busta paga non converrebbe nemmeno a coloro che beneficiano dello scaglione di aliquota più bassa (quella al 23%) poiché calerebbero le detrazioni da lavoro dipendente, e di conseguenza «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%».

L’andamento della tassazione di alcune branche del risparmio, da «L’Espresso» del 06/11/2014


Nemmeno le partite Iva possono dormire sonni tranquilli: viene riformato il cosiddetto regime dei minimi allargando la platea e ponendo il limite di reddito di 15mila euro per i professionisti e di 40mila euro per i commercianti e portando l’aliquota dal 5 al 15%. Come scrive Enrico Marro sul «Corriere della Sera» del 19 ottobre, i commercianti «sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo».

I sostenitori del governo obietteranno che si è fatto molto sul versante delle tasse sul lavoro. Spesso però si omettono alcuni particolari: a parte il fatto che l’abbattimento dell’Irap (per usare le parole di Malagutti) è «rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di Stabilità», questa operazione annulla la precedente riduzione applicata in occasione del decreto Irpef. Non solo: la norma riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato, di conseguenza per i contratti a tempo determinato e per le altre voci della base imponibile (profitti e interessi passivi) l’aliquota passa dal 3,5 al 3,9%. Stante tutto ciò, secondo i calcoli del giornalista Enrico Marro, il taglio complessivo dell’Irap non supererebbe i 2,9 miliardi (una somma ben diversa rispetto ai 5 miliardi sbandierati dal premier).

Passiamo all’abbattimento dei contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato: qui non si conosce l’entità dello stanziamento. Si parlava di un miliardo, che potrebbero divenire quasi due se si tiene conto della soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e degli sconti sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi. Volendo essere ottimisti prendiamo la somma di 1,9 miliardi, dividiamola per 6.200 (l’importo della contribuzione) e otterremo 306.451, i quali rappresentano nient’altro che i contratti attuabili con questa operazione. Sapete quanti sono i contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2013? Secondo il Ministero del Lavoro sono stati 1.584.516, leggermente di più rispetto ai 300mila consentiti dai fondi messi a disposizione dalla manovra.

Anche i fondi per la Cassa integrazione in deroga si rivelano assai striminziti: vengono stanziati 1,5 miliardi, la metà rispetto a quanto speso nel 2013.

Passiamo alle Regioni: il governo, probabilmente con troppa superficialità, ha richiesto 4 miliardi di euro. Spazi di manovra nelle spese regionali ce ne sarebbero. Tanto per dare un’idea, il governatore della Lombardia Roberto Maroni darà vita a breve a un referendum consultivo, incostituzionale e con l’obbligo di passare al vaglio del Parlamento nazionale, al fine di ottenere un opaco «statuto speciale di regione autonoma». Uno scherzetto dal sapore marcatamente elettorale che costerà ai lombardi qualcosa come 30 milioni di euro. Oppure, passando nel versante opposto (sia geograficamente che politicamente) la Puglia di Nichi Vendola assumerà a breve una nutrita pattuglia di 379 precari degli uffici regionali e di 518 precari delle partecipate regionali, senza uno straccio di concorso o di valutazione in base a requisiti di merito (come richiederebbe la legge). Un regalo (a pochi mesi dalle elezioni regionali, vedi un po’ le coincidenze) che peserà sulle tasche dei pugliesi per circa 31 milioni di euro. Dato però che di toccare certe spese proprio non si vuole sentir parlare, gli aumenti delle tasse regionali hanno una probabilità assai elevata: basti solo pensare che da gennaio sarà possibile portare l’aliquota Irpef dal 2,33 al 3,33% (nel Lazio la decisione è stata di fatto già adottata).

Tutto ciò senza contare il fatto che il gettito stimato derivante dalla lotta all’evasione è soltanto empirico e che il via libera da parte dell’Europa è ancora traballante. Se uno di questi due aspetti dovesse creare problemi scatterebbero in automatico le clausole di salvaguardia. Che consistono, lo avrete già capito, in nuove tasse.

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